Cenni storici: |
L'antica fabbrica e
l'annesso complesso catacombale, si trova a circa due chilometri dal centro
abitato, ubicata a ridosso di un costone tufaceo. Fino a non molti anni fa
la Basilica veniva considerata di epoca paleocristiana e la datazione al V
sec. d.C. del Lavagnino fu riportata al VI sec. d.C. dal Venditti (1967),
Scandone (1947), Benedetto Croce (1893) e prima ancora dal Taglialatela
(1878), che fu il primo a compiere una trattazione completa perché, sia per
ampiezza che per tecnica di scavo, gli ricordavano quelle di San Gennaro
extra Moenia di Napoli, risalenti al I e III sec. d.C.
Negli ultimi decenni altri studiosi l’hanno giudicata di epoca longobarda,
datandola tra il VII ed il X sec. d.C., primo fra tutti il Berteaux, seguito
da Belting (1968) e Rotili (1971). Il Taglialatela pensava che le catacombe
di Prata fossero quelle dell'antica Abellinum. Secondo Berteaux, che eseguì
un attento studio sui capitelli delle colonne tortili del "triforium" la
Basilica era sicuramente di età longobarda. Pochi anni dopo, il Rivoira
arrivò alle stesse conclusioni facendo un confronto con la cripta di San
Wiperto presso Quedlinburg.
Nel 1920 Elena Romano convalidò questa tesi, avvallata più tardi dal Toesca,
aggiungendovi nuovi motivi quali: l'esistenza di un'unica abside, l'assenza
del transetto e la struttura delle coperture.
Nel 1931 Gino Chierici si occupò del primo restauro, al termine del quale,
nel fare il punto dell'architettura campana del periodo longobardo, ne
escluse questa Basilica, riportando nuovamente la datazione all'epoca
paleocristiana. Questo primo intervento di restauro si occupò sia del
consolidamento dell'abside, che dell'eliminazione delle sovrastrutture
settecentesche le quali con ben quattro strati di intonaco celavano i muri
originari. L'aula fu lasciata intatta, quattro arcatelle del triforium,
chiuse in passato per ragioni statiche, vennero riaperte, due colonnine
furono messe al posto dei pilastrini in muratura e l'altare barocco fu
sostituito con una semplice mensa di tufo. Valorizzata così la parte
originaria della Basilica, il Chierici, poté portare avanti la sua tesi. A
questa si rifece anche uno studioso locale, il Lepore, che portò la
datazione della Basilica all'ultimo quarto del VI secolo motivando il tutto
dal fatto che la struttura dell'aula era a navata unica. Per il Lepore ciò
poteva evincersi non solo dall'esame dei valori intrinsechi del monumento,
ma anche dalle condizioni politiche e sociali della regione.
Le cose cambiarono dopo il restauro del 1951-55 in seguito al quale, il
Chierici ebbe un ripensamento e ricollocò la Basilica di Prata nel filone
dell'architettura meridionale di età longobarda. Anche alla luce del nuovo
restauro, e non tenendo conto di tutte le argomentazioni, il Venditti ne
ribadì l'origine paleocristiana, infatti, secondo lui, grevi pilastri in
aggetto sulle pareti e legati da archi trasversali ripartendo in tre zone il
semplice schema spaziale, introducono un principio di ritmo che sostituisce,
con soluzione più povera ed elementare, la teoria di archi a colonne, tipica
delle coeve a tre navi. Durante questo restauro vennero alla luce, nel
piazzale antistante l'odierno ingresso, le fondazioni e la parte inferiore
di due chiese. Di esse la più recente e più grande aveva racchiuso nel suo
perimetro l'area di quella precedente. Entrambe le due strutture erano ad "opus
incertum", sembra, quindi, logico pensare che la Basilica odierna sia sorta
sulle rovine delle precedenti. Durante questi scavi venne alla luce una
moneta sulla quale vi é coniata l’effigie di Arechi II, Duca di Benevento,
con la data: 863 d.C.
Il restauro del 1951 rivelò che la struttura interna era ancora integra;
infatti, liberata l'aula da tutti gli intonachi e stucchi essa si presentò
contemporanea alla zona absidale nota, con la quale costituiva un tutt'uno.
L’asimmetria tra l'asse del presbiterio e quello della navata, secondo
Rotili, fu dovuto a motivi pratici se è vero che le finestre furono aperte
solo in un secondo momento, quando venne rimossa la massa tufacea esterna.
Le finestre appaiono come tagli nella muratura portante in quanto prive di
arco di scarico o architrave che viceversa si trova sull'architrave della
porta murata a destra, subito dopo l'ingresso, e su quelli delle porte che
si aprono nelle due pareti dopo il terzo pilastro. Quella di sinistra
immette in un cubicolo, l'altra in un cunicolo, confermando così che insieme
all'abside, la Basilica, fu l'oratorio e l'atrio delle catacombe.
L'assegnazione sicura della Basilica all'età longobarda viene anche
dall'analisi di altri elementi architettonici strutturali. Il "triforium"
costituito da un'ampia arcata centrale su colonne antiche a capitelli ionici
e da due irregolari arcatelle minori, immette al deambulatorio,
completamente scavato, nella roccia tufacea, ha nel mezzo un'abside a pianta
mezza ellisse. In fondo trova posto una nicchia con volta a semicatino
sopraelevata rispetto al sedile in muratura che corre tutto in torno.
L'affresco del nicchione "Vergine orante tra due Santi" fu eseguito verso la
fine del XI secolo, insieme, probabilmente, all'affresco del catino
dell'abside "Salvatore tra Angeli" interamente ridipinto nel 1912.
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Illustrazione del sito: |
La Basilica porta il titolo Abadiale del
Vescovo di Avellino e nell'anno 1876 fu dal Papa PIO IX fatta partecipe dei
privilegi e delle grazie annessi alla Basilica di S.Giovanni Laterano in
Roma. L'arco dell'abside é impostato su due colonne ioniche di granito alte
mt. 4,00, ai lati delle quali si apre, tramite arcatelle minori, l'ambulacro
i cui ingressi misurano mt. 1,45 quello destro, mt. 1,20 quello sinistro;
entrambi sono alti circa 5,00 metri. Questo ambiente é, nella sua larghezza,
irregolare, passando da mt. 3,20 a mt. 2,40. Sul punto medio trova posto un
arcosolio e un vano rettangolare chiamato "ossuario". L'abside, che si
solleva dalla tribuna con uno scalino ha una larghezza di mt. 2,80;
lunghezza mt. 3,00, altezza fino all'imposta dell'arco di mt. 4,00, punta
dell'arco o quarta parte del sesto mt. 1,65, corda dell'arco mt. 4,00. Nel
fondo dell'abside si apre una nicchia alta mt. 2,50 e lunga mt. 1,60, con
volta a semicatino "seggio vescovile". Tutto intorno al perimetro interno
dell'abside corre un sedile in pietra, "presbiterium". Ai lati della nicchia
dell'abside si aprono sei arcatelle, tre per lato, a sesto quasi acuto,
sorrette da altrettanti colonnine tortili in terracotta e da ermette votive.
Queste arcatelle aprono l'abside verso l'ambulacro, che gli gira tutto
intorno. Delle predette arcatelle manca la prima di sinistra, sostituita da
un cippo dove di legge l'epigrafe: “MARTE Q.CAMVRTI P.F.D.D.” interpretata
da G.Mommsenn come: "MARTEI QUINTUS CAMURTI(US) PUBBLII FILIUS DONUM DEDIT".
Infatti secondo il critico la scritta indica un voto fatto a Marte da Quinto
Camurzio; e secondo il Taglialatela il cippo doveva trovarsi alla base di
un'ara votiva. In accordo con Mommsen é il Prof. Mancini che ritiene il
cippo appartenuto ad un'ara arcaica del VI secolo, del tutto simile
all'epigrafe sulla lapide terminale arcaica dell'Agro Falerno che dice: "C.
PLACENTIOS. HER. F. PLACENTIUS. HER. F. MARTE . SACROM MARTE . DONV . DEDE".
La terza colonnina a destra e la prima a sinistra hanno i capitelli abrasi,
mentre tutti gli altri sono di carattere ionico con volute a corona
d'ariete. La seconda colonnina a destra é stata sostituita con un pilastrino
poligonale in mattoni sovrapposti, con in cima un frammento di colonnina.
Sotto la calotta dell'abside c'era dipinto il Salvatore tra due angeli di
proporzioni poco più del naturale; aveva il nimbo cruciforme in testa, con
la destra benedice e con la sinistra tiene aperto un libro dove da tracce di
lettere, il Taglialatela decifrò la seguente frase: “EGO SUM LUX MUNDI QUI
SEQUITUR ME ...”; Il dipinto, che Berteaux attribuiva ad un artista locale
del XV sec., e, l'Armellini ad un artista del VII-VIII sec., venne
sostituito nel 1912 da una banale riproduzione.
In migliore stato si trova il dipinto della nicchia che rappresenta la
Vergine orante tra santi, di grandezza poco inferiore al normale. La
Vergine, con volto ovale e sguardo abbassato, veste una tunica e un pallio
rabescato di color rosso, ha corona gigliata e gemmata, i due santi che le
sono al lato, sono rivolti verso di lei e rappresentano: a sinistra
S.Giovanni (?) con la clamide fermata sulla spalla sinistra da una borchia
rotonda, a destra una santa vestita con manto rosso e con leggero velo sul
capo, dello stesso colore. Il dipinto venne ripreso durante i restauri del
1931. Sotto questo dipinto ne era un altro, come appariva fino all'epoca del
restauro, da una testina a destra che a detta del Chierici e del Rotili
doveva essere coeva alla costruzione della Basilica. Sulla parete destra
della Basilica é affrescato S.Antonio con il bambino, su quella di sinistra:
la crocifissione, S.Giovanni, S.Nicola. Al di sotto della chiesa si trova
una cripta, adibita, una volta, a cimitero. La parte anteriore della
Basilica oltre ad essere di recente costruzione (XVI-XVII sec.) é anche di
scarso valore storico-artistico. A destra troviamo una cappella che
attualmente custodisce la statua lignea del '700 raffigurante l'Angelo
nell'atto dell'annunciazione a Maria, a sinistra, un vano immette al piccolo
giardino esterno antistante le catacombe. La facciata, ricostruita non più
di 50 anni fa, appare modesta, essa realizzata in tufo squadrato non é
intonacata. Qui trovano posto due colonne formate da rocchi in granito,
nella parte inferiore, e marmo bianco baccellato, nella parte superiore, che
hanno capitelli con diametro non corrispondente al sommoscapo dei tronchi
corinzio.
A destra della Basilica, preceduta da un
piccolo giardino, é la catacomba, detta "Grotta" risalente al II - III sec.
d.C.. La "Grotta" si apre a mo' di sala circolare, con dieci arcosoli,
cinque per lato, ridotti in cattivo stato, tanto da non poter più scorgere
al loro interno né loculi, né pitture. Tracce di quest'ultime si potevano
riscontrare nel primo arcosolio a sinistra dell'ingresso. Su un lato della
Grotta ci sono due sarcofagi di terra cotta, di uguale dimensione, lunghi
mt. 1,85, alti mt. 0,60 e larghi mt. 0,50/0,60 alle due estremità. Uno di
essi porta l'epigrafe: IOAS. DOM. che pare potesse leggersi "Ioannes Dominus
(o Domnus)", la piccola "s" altro non é che la finale della parola Ioannes e
l'asta superiore della "D" é prolungata verso la "s" in modo da sembrarne un
punto; l'altro non ha epigrafi. Nel fondo di questa prima grande sala, si
apre un ingresso che immette in un'altra, più piccola della prima, quasi
come una grande cripta. Lateralmente all'ingresso, sulla parte anteriore,
trovano posto due pitture rappresentanti: l'Angelo Gabriele, a sinistra,
l'Annunciazione a destra, di epoca tarda, posteriore al mille. L'Angelo
Gabriele é in ginocchio, la mano destra in modo di benedizione, la sinistra
stringe un giglio ornato da un nastro con su dipinte le lettere: G P D T .
Mancando la A, la frase può essere letta nel modo seguente: "Ave Gratia
Plena Dominus Tecum"; é da notare che qui la "D" é del tutto simile alla "D"
del sarcofago. L'Angelo é vestito con un ricco manto, con bordo gemmato, ha
i capelli biondo. Dalla parte opposta si trova la Vergine, in posizione
genuflessa, a mani giunte. Nell'intradosso dell'arco che separa i due
ambienti, si trovano altri due affreschi rappresentanti S.Pietro e S.Paolo,
del primo si vede solo la guancia destra, del secondo la spalla sinistra
dove la clamide é appuntata dal solito fermaglio. In ambedue ci sono tracce
di lettere, nella prima sembra poter leggere PE... forse Petrus. La "E" é
intatta e la sua forma é quella del carattere franco-gallico. La cella
interna ha due arcosoli per lato, il fondo é circolare e nel mezzo vi é
un'ara con tracce di pittura. Su di un sarcofago in marmo può leggersi:
T. NONIO. T. F.
PROCVLO
TI, NONII FORT
VNIVS ET. PROC
VLVS FIL. P. P. BM. F.
Questa frase non viene riportata dal Mommsen ma il prof. Mancini legge: "TITO
NONIO TITI FILIO PROCULO, TITI DUO NONII FORTUNIUS ET PROCULUS FILII PATRI
PIENTISSIMO BENE MERENTI FECERUNT". Sul coperchio le lettere D. M. S.; su un
altro coperchio troviamo un'analoga scritta solo che in questo ultimo manca
la "S" (Diis Manibus Sacrum). Un'altra epigrafe si trova su un cippo
spezzato:
D. M.
SECVND
NVTRITO INC
OMPARABILI
NA. SEC
B.
e sempre secondo il prof. Mancini: "D.M. SECUNDO NUTRITO INCOMPARABILI
NAEVIVS SECUNDINUS BENEMERENTI POSVIT". Da quanto detto sinora, analizzando
l'iconografia, possiamo trarre due profili, la parte più antica, la
"Grotta", é la vera e propria catacomba dell'epoca paleocristiana (III
sec.), l'altra, per caratteri architettonici e costruttivi é la Basilica
neocristiana. E' probabile che la "Grotta", nata come catacomba e quindi
come cimitero, fosse stata trasformata in luogo dove compiere le sacre
funzioni prima che l'editto di Milano (editto dell'Imperatore Costantino, a.313)
liberalizzasse il culto cristiano. Gli arcosoli di questa catacomba hanno
gli stessi euritmi delle catacombe napoletane, di quelle romane, di quelle
di Siponto(?) e di quelle presso la Basilica dei Martiri di Cimitile, presso
Nola. In quest'ultima catacomba troviamo due altarini identici che
certamente non servivano per il santo sacrificio, quanto a conservare
reliquie e ad appoggiarvici sopra lampade ed oggetti sacri. Al di sopra
della catacomba si trova un'ampia conca, incavata nella collina tufacea,
chiamata volgarmente "Grotta dell'Angelo". Qui si notano tracce di pittura
raffiguranti: il Cristo giudice, con capelli rossicci e volto triste, e un
Angelo, con ali spiegate e la spada in mano. |