Le nostre visite alla Domus di Palazzo Ricca – 2012 (da IL MATTINO)

Da IL MATTINO (Antonella Cilento). La perseguitano, povera guida, dicendole che somiglia a Maria «Star» Gelmini: sì, è vero, un po’ ci somiglia la giovane ricercatrice che ci guida nel ventre di Palazzo Ricca, ovvero nella domus romana scoperta e restaurata dal Gruppo archeologico napoletano, tuttavia non solo è decisamente più bella della ex ministro ma soprattutto è decisamente competente. Così è il Maggio dei Monumenti: la gita dei napoletani in visita alla propria città è composta tanto da seri appassionati – signore e ragazzi – quanto da gruppetti di goliardi. E siccome il dedalo della domus è abbastanza complesso – si entra, si svolta, si torna indietro, un corridoio interrotto lo si reincontra in un punto lontano e difficilmente immaginabile dall’interno dello scavo – gli indisciplinati gongolano. Da una finestra che affaccia sulle strade parallele a Palazzo Ricca – siamo al termine di via dei Tribunali, Castelcapuano ovvero la Vicaria è a pochi metri – su via San Nicola dei Caserti e altri antichissimi tracciati sfrecciano motorini. Dentro Pompei, fuori il Bronx. E, d’altro canto, Napoli è questo magnifico taglio verticale di epoche, ambienti e persone che non avrebbe immaginato nemmeno il Piranesi più sfrenato. Scriveva Fabrizia Ramondino nel capitolo di «Dadapolis» intitolato «Precarietà»: «…se altrove gli antichi miti più facilmente sono stati cancellati dalla ragione, qui la natura stessa costringe gli uomini a riviverli; sia che terremoti, eruzioni, bradisismi continuino a ricordare la vanità di ogni costruzione materiale e spirituale – e l’antica Pompei nell’immaginario collettivo si confonde con la moderna Cernobyl – sia che, nonostante gli scempi paesaggistici e l’inquinamento, si trovino a Napoli e nei suoi dintorni ancora resti di primigenia bellezza naturale, al punto che si può ancora immaginare di incontravi oggi, come il professor La Ciura un tempo ad Augusta, la sirena». E il racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa cui fa riferimento Ramondino, «Ligheia», un assoluto capolavoro che narra delle visioni di uno studente di greco afflitto dal caldo su un’isolata spiaggia siciliana, si attaglia effettivamente alle scoperte che la città offre in ogni suo cardo o decumano. Il Gruppo Archeologico Napoletano, oltre quarant’anni di storia, questo lo sa molto bene: dalla congrega di San Francesco di Assisi a Soccavo all’area archeologica di vico Carminiello ai Mannesi, dalle terme romane di via Terracina (queste avranno aperture speciali anche a luglio ed agosto) alle terme romane di Agnano, attraverso percorsi che toccano tutti i luoghi meno noti di Napoli e molti luoghi della Campania e delle province limitrofe, il Gruppo, nato nel 1971, opera infaticabile per svelare faglie temporali del nostro territorio. Il progetto che per tutto il mese di maggio e quello di giugno offre l’opportunità di visitare la domus di palazzo Ricca si chiama non a caso DomusAccessibile (per chi vuol fare l’esperienza ci sono ancora il 25, il 27 e il 29 giugno h 9-12,30). Cos’era la domus? Una casa privata quasi certamente, forse una terma – qui dovevano essercene – o forse anche una palestra, tesi confortata dal ritrovamento pochi anni fa’ di due busti d’atleta proprio a Castelcapuano. Di certo, una parte di città ricostruita dopo i gravi danni dell’eruzione di Pompei e il suo devastante terremoto e maremoto. Scrive a questo proposito Stazio (altro frammento di «Dadapolis»): «Crederà la generazione ventura degli uomini, quando rinasceranno le messi e rifioriranno questi deserti, che sotto i loro piedi sono città e popolazioni e che le campagne degli avi s’inabissarono?». E più avanti Karl Friederich Schinkel, 1790, pittore e architetto: «È incredibile come in un paese dove i terremoti sono così frequenti si sia avuta finora così poca cura nel prevenire i danni agli edifici. La maggior parte delle case napoletane è tale che la minima scossa le rende inabitabili»: parole inascoltate a Napoli come nel resto d’Italia, si veda la povera Emilia Romagna. Ma questo, come sempre a Napoli, non impedisce che le costruzioni facciano germogliare nuove costruzioni e i popoli si susseguano ai popoli: la magia della domus consiste anche in ciò che sopra le è stato edificato, ovvero Palazzo Ricca e l’Archivio storico del Banco di Napoli. I napoletani ignorano la ricchezza straordinaria dell’Archivio, oltre al fascino visivo di ciò che l’Archivio contiene: il gruppo che prima rumoreggiava con la guida della domus ora tace, ammirato. Questa è la Banca più antica d’Europa – sia pur in lite con il Monte dei Paschi di Siena per il primato – nata dal convergere di otto banchi pubblici: Banco della Pietà (1539-1808), Banco dei Poveri (1563-1808), Banco dell’Annunziata (1587-1702), Banco di Santa Maria del Popolo (1589-1808), Banco dello Spirito Santo (1590-1808), Banco di S. Eligio (1592-1808), Banco di S. Giacomo e Vittoria (1597-1809), Banco del Salvatore (1640-1808). Costituito come archivio generale da Ferdinando I di Borbone nel 1819, dal 1950 è denominato Archivio Storico e raccoglie tutte le scritture dei banchi pubblici dei luoghi pii che tra il XVI e il XVII secolo nati con diversi scopi filantropici. Qui si conserva la memoria monetaria, artistica e umana di Napoli e di una buona parte della storia e della cultura d’Europa. A seguire l’appassionato direttore, Aldo Pace, si scoprono le famose filze, colonne di bancali estinte sospese al soffitto con gancio – qualcuno accanto a me commenta: «Ah, un kebab!» – faldoni cuciti fino ad altezze vertiginose – un metro e mezzo: la rilegatura li piega come sinuose schiene di bellissime donne scoliotiche – le pandette, i loghi dei Banchi dipinti a tempera sul taglio cartaceo dei volumi, i libri maggiori di terze, cioè rendite dei beni di proprietà dei banchi, gli arrendamenti, i fiscali, le adoe, cioè rendite di tributi e imposte feudali, fedi di credito e polizze, dispacci, rappresentanze, ordini, bancali, cioè fedi di deposito, fedi di credito, madrefedi e polizze, giornali copiapolizze, pandette, i libri maggiori dei creditori, i libri di notate fedi, gli squarci di cassa, i registri degli introiti e degli esiti, i registri delle reste particolari e delle reste generali, i registri dei riscontri… In pratica l’intera e affascinante procedura bancaria, assai simile all’ odierna. «Abbiamo in visita centinaia di studenti e ricercatori ogni anno», racconta Aldo Pace, sfogliando con cura il documento dei pagamenti a Caravaggio, che svelano la committenza di un quadro mai realizzato, una Madonna con Bambino e santi, ma regolarmente pagato dal mercante d’arte Nicolò Radolovich. E così si spulciano i «fatti» di Pergolesi, Verdi, Ferdinando Sanfelice, Domenico Barbaja, Gaetano Donizetti, di artigiani, musicisti, pittori, commercianti e dottori, di guerre e palazzi, di cavalieri e dame e di un immenso popolo minuto, parte integrante di una città e di un regno dai così vasti e moderni interessi che necessita di oltre trecentotrenta stanze per archiviare il suo tempo monetario. Usciamo felici, dopo aver percorso le stanze affrescate, toccato i bancali di legno e annusato i libri che tutti si fanno scrupolo di toccare ma la cui carta regge così bene al tempo che si sfogliano molto meglio di certe pagine virtuali di e-book su Kindle… In attesa della rivoluzione telematica che farà sparire la carta, e con essa noi che senza non sappiamo vivere, una passeggiata nella Storia a Palazzo Ricca è consigliata, per non perdere il senso di chi siamo, chi siamo stati, chi saremo.

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